Viviamo in un’epoca di iperproduttività, iperconnessione e auto-sfruttamento. Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han definisce questa condizione con il termine “società della stanchezza”, un concetto che invita a riflettere sulle dinamiche contemporanee di potere, libertà e alienazione. Ma cosa significa realmente questa espressione e come influenza le nostre vite?
Da società disciplinare a società della prestazione
Han prende spunto dalle teorie di Michel Foucault sulla “società disciplinare”, in cui il potere si esercitava attraverso il controllo esterno, per descrivere un nuovo tipo di dominio: quello della “società della prestazione”. In questa realtà, non siamo più oppressi da divieti e imposizioni, ma spinti ad auto-motivarci, auto-ottimizzarci e auto-sfruttarci.
Non c’è più bisogno di un “padrone” che ci obblighi a lavorare: siamo noi stessi a imporci ritmi sempre più serrati, a voler essere sempre più produttivi, a non accettare pause o momenti di riposo. Il risultato? Un’umanità stanca, esaurita e in crisi.
L’auto-sfruttamento e il burnout
Secondo Han, nella società della stanchezza l’individuo non si percepisce più come un soggetto sottomesso, ma come un imprenditore di se stesso. Ogni fallimento viene interiorizzato e vissuto come una colpa personale, mentre il continuo sforzo per migliorarsi e superarsi porta a stati di ansia, depressione e burnout.
Il burnout non è più una condizione legata solo ad alcune categorie professionali, ma un fenomeno diffuso che colpisce lavoratori, studenti e persino bambini. Il sovraccarico informativo, la necessità di essere costantemente performanti e la paura di rimanere indietro alimentano un senso di inadeguatezza e stress cronico.
Il ruolo della tecnologia e dei social media
Un aspetto centrale nella riflessione di Han è il ruolo della tecnologia. I social media, anziché rappresentare un’opportunità di svago e interazione, sono diventati strumenti di auto-controllo e di continua esposizione. La necessità di mostrarsi sempre attivi, positivi e produttivi accentua la pressione sociale e alimenta ulteriormente la stanchezza collettiva.
I dispositivi digitali ci rendono costantemente reperibili, eliminando la distinzione tra tempo lavorativo e tempo libero. Il tempo per il riposo e la riflessione viene eroso, sostituito dalla necessità di rimanere sempre aggiornati e connessi.
La scomparsa della contemplazione
Han osserva che nella società contemporanea il pensiero contemplativo è stato sostituito dall’attività incessante. Il silenzio e la noia, un tempo fondamentali per la creatività e la riflessione, sono stati demonizzati e rimpiazzati dalla necessità di riempire ogni momento con un’attività produttiva.
Eppure, la capacità di fermarsi e di “non fare nulla” è essenziale per ritrovare un senso di equilibrio. Il riposo non dovrebbe essere visto come una perdita di tempo, ma come un atto di resistenza contro la logica del profitto e dell’efficienza a tutti i costi.
Come salvarsi dalla società della stanchezza?
Salvarsi dalla società della stanchezza non è semplice, ma Han suggerisce alcune vie d’uscita.
- Recuperare il tempo del riposo: imparare a dare valore al riposo e al tempo libero, senza sensi di colpa.
- Riconnettersi con la contemplazione: coltivare momenti di silenzio e di riflessione senza il bisogno di essere sempre attivi.
- Limitare la dipendenza dalla tecnologia: creare spazi di disconnessione dai social media e dalla reperibilità costante.
- Accettare la vulnerabilità: capire che non siamo macchine e che la produttività non deve essere il fine ultimo della nostra esistenza.
Conclusione
La “società della stanchezza” descritta da Byung-Chul Han è una condizione che riguarda tutti noi. Viviamo in un’epoca in cui la libertà si trasforma in auto-sfruttamento e in cui il desiderio di successo si traduce in stress e ansia. Riconoscere questi meccanismi è il primo passo per ripensare il nostro rapporto con il lavoro, la tecnologia e il tempo, riscoprendo il valore del riposo e della lentezza.


La cosa positiva è accorgersi di quanti pensieri si circonda l’umanità e fare da trasmettitori di come l’esistenza possa essere osservata da angolazioni e riflessioni diverse. Della società della stanchezza si sono occupati in tanti… dai Greci a Marx, a Charlie Chaplin in “Tempi moderni”. Per certi versi non possiamo parlare di libertà… siamo “schiavi moderni”. Ciononostante, siamo un po’ più liberi se consideriamo che la nostra testa continua a pensare e che la stanchezza principale — come quella di chi scala una montagna, o corre, o nuota — ha un peso diverso per chi sceglie di farlo e per chi si trova costretto. C’è stanchezza buona e stanchezza cattiva, per semplificare. Cambiano i tempi. Vale la pena non lasciarsi impressionare da nuovi linguaggi, poteri… siamo tutti spiati dal grande orecchio, dal grande occhio, siamo tutti schedati e controllati per il bene comune o per il male? Chi controlla i controllori? La guerra perché non si ferma mai? Frasi dette e ridette. Non bisognerebbe perdere di vista che la vera fatica sta nel continuare a scoprire cose di cui siamo potenzialmente capaci e che ci sono ancora sconosciute, come ad esempio cosa ha consentito all’umanità di non estinguersi e di evolvere a dispetto dei faticosissimi tentativi di ogni tipo di dittatura e abusi. La fatica è scoprire quanti livelli di presenza consapevole riusciamo a mantenere nel vivere noi stessi e gli altri, e aprire tutti sensi per avvertire l’energia e la rifrazione contemporanea che accompagna ogni singolo attimo della vita. Siamo pile atomiche di corpo-pensieri primitivi, evoluti, emotivi e razionali, lungamente ereditati e rimpastati che ci scambiamo anche quando ci crediamo vuoti. Chi cerca di fare continuamente qualcosa spesso fa una fatica cattiva stradoppia, illudendosi di non pensare o di sottrarsi alla fatica buona. Alla fine, anche tutte le diavolerie moderne incidono molto meno di quello che si crede. A mio parere non si tratta di fermarsi, ma di andare avanti di più e meglio. I pellerossa dicevano: “Sembra che i bianchi facciano di tutto per far morire ogni cosa, noi cerchiamo in ogni cosa la vita”. Bello, ma non era poi davvero così. Non c’è silenzio silenzioso, c’è un silenzio se si diventa capaci di ascoltare i suoni, il vuoto è lo spazio più pieno che c’è… quello dove si raccolgono le intuizioni più profonde con visioni sostenute da aneliti di iperspazio e tempo.