Zanzara in bianco e nero mentre punge la pelle, simbolo delle piccole violenze quotidiane.

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By Psicosinfonie

Le piccole violenze quotidiane (assolutamente legali)

Non fanno notizia, non destano scandalo, non compaiono nei codici penali. Eppure, le piccole violenze quotidiane sono ovunque. Sono legali, silenziose, sottili. Si infiltrano nelle nostre giornate con la normalità dell’abitudine. E noi, spesso, non ce ne accorgiamo nemmeno.

Ci hanno insegnato che la violenza ha il volto del colpo, dell’urlo, dell’aggressione. Ma esistono forme più subdole, più educate, più mimetiche. Sono quelle che si consumano sotto gli occhi di tutti, molto spesso con il sorriso sulle labbra. Quelle che non lasciano lividi, ma entrano sottopelle. Quelle che, proprio perché accettate, sono le più difficili da denunciare — perfino a noi stessi.

Gocce di veleno

Una telefonata di lavoro all’ora di pranzo, o di cena, o la domenica mattina, a cui non possiamo non rispondere, ma che avrebbe tranquillamente potuto aspettare di essere fatta.
Una richiesta “urgente” senza alcuna reale urgenza, del tutto gratuita, dettata solo dall’impazienza.
Un ritardo sistematico nei pagamenti, a cui si deve sorridere per non sembrare conflittuali.
La pretesa di ascolto infinito della vita altrui, perché come sappiamo ascoltare noi, nessun altro.
Un compleanno dimenticato, perché la vita di ognuno è troppo stressante per ricordarsene.
Una battuta acida, a cui si deve ridere per non fare gli offesi.
Un appuntamento disdetto all’ultimo momento, magari solo per stanchezza, o per un’occasione migliore.
I commenti “divertenti” su quanto mangiamo, quanto beviamo, quanto parliamo, quanto ci trucchiamo, come ci vestiamo, come parliamo, quanto siamo ingrassati o dimagriti, a cui non rispondiamo per non fare i permalosi o gli antipatici.
L’auto del vicino che invade regolarmente il nostro posto, perché tanto riusciamo a fare manovra lo stesso.
L’assicurazione che non copre per un dettaglio assurdo.
Le domande personali, che non vorremmo ci rivolgessero, ma a cui non riusciamo a non rispondere.
Accettare di venire trattati con superiorità, per non complicare ulteriormente la situazione.
Farsi carico di responsabilità che non ci spettano, solo perché le cose funzionino.
Dover essere pazienti, tolleranti, comprensivi, ma senza poterlo pretendere di rimando.
Lasciare che abusino del nostro tempo e delle nostre energie, della nostra attenzione, solo perché siamo amici. O colleghi. O amanti.
Lasciarsi zittire dalla solita litania: “Non è il caso di farne un dramma!”.

Sono tutte piccole cose. Piccole violazioni del rispetto. Piccole erosioni di dignità.
Eppure, alla lunga, diventano veleno.

La puntura della zanzara

Le piccole violenze quotidiane sono spesso invisibili perché abbiamo imparato a chiamarle in altri modi. “Normalità.” “Realtà.” Ma cosa succede se le guardiamo in faccia per ciò che sono?
Succede che iniziamo a sentire il peso di ciò che tolleriamo ogni giorno.
Il tempo che ci viene rubato senza un grazie.
Le relazioni asimmetriche, dove dare è obbligo ma ricevere è eventuale.
Le parole sminuenti, camuffate da “ironia”.
La pazienza univoca.
L’univoca tolleranza.
L’assenza totale di gentilezza.

Il fatto che siano legali non le rende innocue. Anzi.
Come la puntura di una zanzara, di cui spesso nessuno si accorge, ma che poi ci prude per ore.
Solo che quando veniamo punti da una zanzara, pur essendo altrettanto legale e pure naturale, non esitiamo a inveire e cercare di schiacciarla. Non ci impediamo di grattarci o spalmarci pomate varie, lamentando il prurito e il bruciore. Non ci sentiamo in colpa a difenderci con zanzariere, zampironi, spray, vape, ddt, ultrasuoni e griglie elettrificate che le bruciano vive…
Nel caso delle piccole violenze quotidiane, invece, proprio per la loro legalità e “normalità”, qualcosa ci impedisce di lamentarci e opporci.
Se cogliamo una zanzara posata sul braccio, la colpiamo senza remore, prima che ci punga.
Di fronte a uno sgarbo camuffato con un po’ di ironia, invece, lasciamo che ci venga fatto.
Per non risultare attaccabrighe, o ingrati. Fragili. Emotivi.

La trappola della sopportazione

Tanto la tolleranza reciproca ci rende più liberi, tanto la sopportazione univoca diventa una trappola.
Un circolo vizioso che ci imbriglia a tal punto che non sappiamo più riconoscere il nostro limite.
E il limite, quando non lo abbiamo più chiaro, continuiamo a oltrepassarlo. Di poco, magari, ma ogni giorno. Fino a che non ci troviamo chiusi in una prigione senza sbarre.
Intrappolati in una sopportazione illimitata.

Chiamarle per nome

Riconoscere le piccole violenze quotidiane non vuol dire diventare paranoici, isterici, rabbiosi. Vuol dire osservare. Dare un nome. Riprendersi il diritto di ritenerci feriti anche se non mortalmente. Anche se legalmente. Anche se casualmente, “senza alcuna intenzione”.

Non è facile, perché spesso siamo complici inconsapevoli delle violenze che subiamo e di quelle che infliggiamo. Siamo talmente abituati a vivere nella “normalizzazione” che fatichiamo a distinguere un abuso da una semplice interazione. Ma possiamo reimparare.
Possiamo fermarci un attimo e chiederci cosa accettiamo davvero, e cosa invece subiamo.
Se il trattamento che ci è stato riservato lo accetteremmo se fosse stato rivolto a qualcuno che amiamo.
Se è normale o solo frequente.

Conclusione

Mettere un limite a ciò che ci disturba restituisce valore a ciò che ci fa bene.
Pretendere rispetto anche nelle piccole cose è un diritto, non ingratitudine.
E non serve alzare la voce per farlo.
A volte basta dire di no.
Trattare il proprio tempo libero come proprio, non altrui.
Riconoscere i favori che elargiamo, invece di lasciare che diventino atti dovuti.
Senza paura di passare per quello che non siamo.