Cartelli stradali in legno che indicano la “Freud Promenade” a Collalbo sul Renon, simbolo del percorso della psicoanalisi

La psicoanalisi

La psicoanalisi non è solo una disciplina, è un viaggio. Un viaggio che non finisce mai. In questa intervista, cerchiamo di segnare alcuni momenti del lungo percorso come psicoanalista del dottor Guido Buffoli.

Un dialogo diretto, non accademico, che restituisce profondità a una professione spesso fraintesa e semplificata.

I motivi che l’hanno spinta a scegliere la psicoanalisi, come carriera, sono stati gli stessi che l’hanno portata a continuarla per tanti decenni?

Sostanzialmente, sì, con progressive evoluzioni.

Una passione precoce

Fin da piccolo sono sempre stato attratto da tutto ciò che mi permetteva di capire come si viveva, mi ponevo domande sulle emozioni e sulle relazioni. Allora cercavo risposte nelle favole, nei racconti, poi nella mitologia, nei libri. Mi piaceva ascoltare e osservare. Già alle medie ho incontrato le Metamorfosi di Ovidio. Poi, al liceo, la letteratura, la poesia, le tragedie greche, Edipo, Ercole… Delitto e castigo, I dolori del giovane Werther, la filosofia, i primi libri di psicologia hanno aumentato il bisogno di capirmi e di capire gli altri.

La svolta

La svolta è stata data dall’incontro con i libri di Freud, perché si aprivano spazi e connessioni maggiori.
Sono sempre rimasto impressionato — oltre alle competenze culturali, alla profondità del pensiero, all’accuratezza dello scrivere — dalla capacità di Freud di rappresentarsi un così gran numero interattivo di connessioni con il sapere umano, che davano forma e confermavano le sue intuizioni.

Il percorso professionale

Dopo la maturità mi sono iscritto a Medicina, pensando di specializzarmi in psichiatria e iniziare il lungo cammino per cercare di diventare psicoanalista anch’io. Un training impegnativo che dura molti anni e sacrifici: prima di essere accettati, si deve essere psicoanalizzati da un senior didatta, poi, se si vuole procedere, è necessario fare colloqui con altri senior e, se accettati come allievi, seguire seminari e prendere in cura due pazienti sotto la guida di supervisori. Alla fine, si presentano le relazioni e, se si è fatto un buon lavoro, si può diventare membri associati della Società Psicoanalitica Italiana. La terapia psicoanalitica si basa su quattro sedute alla settimana per anni.

Ho rammentato queste informazioni per rispondere alla domanda chiarendo che, nonostante la gravosità e la durata di questo cammino, che non considero una carriera ma una scelta di vita, sono rimasto convinto di questa scelta, sia come persona che come professionista.

Ha mai avuto dubbi sulla sua scelta professionale?

Non ho mai avuto dubbi significativi. Ma, all’inizio, ho avuto inevitabilmente dei dubbi sulle mie capacità e su come svolgere al meglio il mio lavoro. Come adattarlo alle persone, avendo preso in cura — sia nel Servizio Pubblico, che privatamente — diverse patologie con bambini, adolescenti e adulti.

La psicoanalisi non è solo una professione, ma anche uno scambio relazionale: il terapeuta aiuta il paziente ma anche viceversa, per cui è un rapporto che continuo a ritenere essenziale. Una volta, una paziente mi ha chiesto se non mi pesava starmene chiuso nel mio studio, invece di girare il mondo. Ma subito dopo ha aggiunto: «Credo di no… in fin dei conti lei viaggia le vite di tante persone».

Quali sono stati i momenti più significativi nella sua carriera psicoanalitica?

I primi colloqui, perché la mia analisi personale fosse considerata didattica, svolti con psicoanalisti storici e di rilievo: Cesare Musatti, Egon Molinari, Franco Fornari.

I secondi colloqui, per essere accettato come allievo.

Gli esami finali, per poter diventare associato, in cui veniva valutato come avevo condotto i miei primi due casi con trattamento psicoanalitico.

Le sedute con i supervisori Senise e Lopez.

Non posso però scordare le emozioni, alla fine della mia psicoanalisi, quando il mio psicoanalista Giorgio Sacerdoti mi fece accomodare non nel solito studio, ma in un salottino, e parlammo vis-à-vis di noi e della fine del viaggio terapeutico. Ero molto emozionato e cercavo di trasmettere tutta la riconoscenza per quanto mi aveva permesso di scoprire di me… mi è scesa qualche lacrima, che non lo ha lasciato, diciamo, indifferente.

Come è cambiata la psicoanalisi da quando ha iniziato a praticarla?

Secondo i detrattori, la psicoanalisi è acqua passata. In realtà, pur mantenendo le basi del pensiero freudiano, ha aggiunto molte scoperte legate alle nuove conoscenze. La cura psicoanalitica ha ampliato alcuni limiti e si è estesa, oltre alle nevrosi, anche agli stati borderline e psicotici. Il setting classico è stato modificato con uno stile animativo. Ha favorito la collaborazione con le neuroscienze, la psicologia, e da tempo sta cercando con le istituzioni di rendere mutuabili le sedute di psicoterapia e di psicoanalisi, per renderle accessibili anche ai meno abbienti, come avviene in altri Stati. La Società Psicoanalitica Italiana conta molti psicoanalisti e ha molti centri per ogni regione, tra cui centri di consultazione gratuiti. Promuove seminari, convegni, congressi nazionali e internazionali, dimostrandosi attiva nel panorama scientifico ma anche culturale e sociale. È rimasta un’associazione privata, per poter mantenere una propria autonomia di pensiero e operativa, che fa parte della Società Internazionale IPA fondata da Sigmund Freud.

Qual è stata la sfida più grande che ha affrontato con un paziente?

Le sfide più difficili sono quelle con persone che fin da subito manifestano propositi suicidari. Si tratta di capire se portano S.O.S. dimostrativi, o un’intenzione radicata, una decisione presa escludendo la possibilità di dialogo e di elaborazione.

Un paziente, seguito farmacologicamente da un collega psichiatra, una volta mi ha imposto di rispondere se ritenevo che la sua testa fosse pilotata da altri, di cui io ero solo uno strumento, o che lui fosse veramente matto. Senza attendere risposta, aggiunse — con voce fra il represso e al limite della perdita di controllo — che era in un vicolo cieco e non poteva sopportare nessuna delle due situazioni, ma comunque dovevo rispondergli. Se provavo ad allargare la questione proposta, si agitava, mi accusava di tergiversare. Così ho fatto appello a poche parole e a una trasmissione più empatica dei miei corpo-pensieri, almeno di vicinanza. Al momento è servito un po’ ad attenuare la dolorosa impasse, ma non ha continuato a venire.

C’è un episodio che l’ha profondamente toccata durante una sessione di psicoanalisi?

Nel lavoro terapeutico con le persone si è sempre toccati. Altrimenti, o ti tieni lontano, o proiettivamente le persone ti fanno sentire la lontananza da loro stessi.
Riporto due episodi.

Primo episodio

Una volta, al primo colloquio, un ragazzo mi disse che spesso perdeva il controllo, e subito all’improvviso ha cominciato a far saltare la poltroncina su cui era seduto per tutta la stanza. Poi, si fermato e, come se niente fosse, ha ricominciato a farlo chiedendomi se potevo prenderlo in terapia. Oltre a sentirmi emotivamente impreparato, quello che mi ha toccato, lì per lì, non è stata tanto la paura di quello che poteva accadere e accadermi, se la persona era in uno stato di scompenso, ma percepire il groviglio di corpo-pensieri sollecitati da tutta quella tensione. Empaticamente, mi ha fatto pensare al paziente come se si trovasse a cavalcare emozioni animali esplosive in un rodeo.

Secondo episodio

Un’altra volta, un ragazzo autistico molto chiuso, che non parlava e pareva indifferente a tutto, si è messo a piangere mentre il padre mi riferiva che il giorno prima era mancata la moglie. Era difficile trovare il modo di consolarlo. Fra il moto spontaneo e il rispetto delle sue paure, non si potevano prendere al balzo quelle lacrime per entrare nella fortezza, senza essere davvero invitati.

Ritiene che i sogni siano materiale su cui lavorare nella psicoanalisi?

Sì, ne sono molto convinto. Oltre a manifestarci tracce del nostro inconscio, offrendoci la possibilità di entrarci per un po’, ci restituiscono i più svariati frammenti delle continue attività e memorie mentali che processano in ogni istante la complessità dell’esistere, di cui siamo solo parzialmente consapevoli. Hanno anche il potere di farci fare viaggi nel tempo, nel passato e nel futuro. E di farci rincontrare persone che non ci sono più con estremo realismo, senza ricorrere a sedute spiritiche.

Come definirebbe il suo approccio terapeutico?

È una domanda molto complessa… Per quanto si possano abbracciare convintamente dei modelli terapeutici, non è mai utile essere rigidi, e si può imparare anche da altri.
Non ho mai ritenuto la psicoanalisi una dottrina dogmatica, dalla psicoanalisi stessa si sono originate altre scuole di pensiero.

Al famoso psicoanalista Winnicott fu chiesto se con i pazienti usava la psicoterapia o la psicoanalisi. Lui rispose che cercava di usare quello che gli pareva più utile per i pazienti.
Lavorando con bambini, adolescenti e adulti, spesso con casi gravi, anch’io mi impegno per adattarmi alla situazione della persona, cercando di tenere ben presente i fondamenti che la psicoanalisi mi ha insegnato. Il setting e la comunicazione con i bambini, con gli adolescenti e con gli adulti sono diversi. Comunque, è un approccio psicodinamico che cerca di far rincontrare la persona, indipendentemente dall’età, con le sue parti più sane e con lo sviluppo delle sue potenzialità. E si basa sul rispetto di quello che la persona da sola ha cercato di fare, credendo fosse il meglio, anche se non lo è.

Se penso al passato, qualche influenza nei miei approcci terapeutici la attribuisco anche alla maieutica del pensiero Socratico.

Come gestisce il confine tra empatia e coinvolgimento emotivo?

Se per empatia si intende avvicinarsi a percepire i sentimenti dell’altro, se questo accade, comporta trasmettere all’altro vicinanza e comprensione. Provare empatia per l’altro inevitabilmente ti mette in contatto anche con le tue emozioni, che possono essere impreviste e reattive, specie se attivano sovrapposizioni di corpo-pensieri poco consapevoli. Quindi, rendersi disponibili empaticamente comporta ogni volta scoprire quale empatia puoi provare anche per te stesso e per i confini che caratterizzano le diverse emozioni. Empatia e coinvolgimento aprono sempre più spazi di quelli che si prevedono, perché confluiscono e si interfacciano con le esperienze emotive, simili e diverse, raccolte nei secoli nell’umanosfera.

Che ruolo hanno i corpo-pensieri nelle sedute?

Enorme, difficile da rappresentarsi e da seguire, per la velocità degli scambi fra paziente e terapeuta, che possono avvenire secondo dinamiche primitive o progressivamente più evolute, e determinano diverse reazioni. Quanto meno sono riconosciuti tanto più condizionano gli atteggiamenti e le parole della coppia terapeutica.

È possibile ignorare i corpo-pensieri?

Purtroppo, sì. Siamo poco abituati a dare loro importanza.
Fin dal primo incontro, sia il paziente che il terapeuta, anche se si calano nei loro ruoli e cercano di seguirli, si osservano, si annusano, si toccano, si evitano, si classificano per il loro aspetto, per come son vestiti, cercano di capire quanto sono disposti ad ascoltarsi, avvicinarsi, sedursi. Disturbati da questi brusii, si sforzano di mantenere un controllo e non farsi condizionare, ma questo non li dispone a un incontro rilassato ed aperto, o quanto meno li limita. Avere presente la materialità dei corpo-pensieri richiede di andare oltre e ricordare che siamo fatti di tante particelle di micro materia, e collegarli. Il nostro vivere e incontrarci è fatto di momenti emotivamente più carichi di pulsioni ed eros di quanto siamo disposti ad ammettere. Lo spazio terapeutico diventa ricco e utile, se scopre queste correnti emotive. Ma per riuscirci, il terapeuta deve aver imparato a riconoscerle e consentire al paziente di scoprire come farlo.

Se potesse psicoanalizzare un personaggio del passato, chi sceglierebbe?

In prima battuta direi Gesù di Nazaret e gli Evangelisti. Con più miti pretese, Edipo ed Ercole.

Si prepara mentalmente prima di una sessione difficile?

Solo se sento di avere la mente affollata. Altrimenti mi affido all’hic et nunc, cercando di mettere insieme tutti i miei sensi il più possibile, per poter cogliere i movimenti istintuali dei corpo-pensieri, nell’incontro della coppia terapeutica, che si annusano, si sfiorano, si allontanano, si sfidano. E cerco di svelare i loro versi nelle corde della voce, prima di parlare.

Ha mai avuto un paziente che l’ha davvero sorpresa?

Fra i bambini, tutti i pazienti autistici.

Una volta, non ero in veste di psicoanalista, anzi, facevo l’accompagnatore volontario di pazienti tetraplegici, accompagnandoli in carrozzina all’aperto: il trentenne che stavo portando al parco, vittima di un grave incidente, credevo avesse perso anche l’uso della parola e dubitavo della sua presenza mentale, non aveva il controllo degli sfinteri, sbavava e manifestava attacchi epilettici. Mi rivolgevo a lui con parole semplici, con voce infantilizzata. Lui ovviamente non mi rispondeva, ma lo vedevo che a tratti diventava rosso, e sembrava sforzarsi di dire qualcosa, fino a che riuscì a dirmi con voce strozzata: «Eee…sei scemo».

Lui e i bambini autistici mi hanno davvero convinto che non sai mai davvero cosa c’è oltre la maschera, comunque di più di quello che vedi. A maggior ragione per gli atri pazienti meno gravi.

Ha mai utilizzato tecniche non convenzionali nelle sue terapie?

Con i bambini ho utilizzato modalità di gioco goduto e animazione sonoro-musicale ma non le considero tecniche non convenzionali. Abitualmente nelle sedute psicoterapeutiche pongo il più possibile attenzione ai toni della voce, sia miei che dei pazienti, e li aiuto ad accorgersene.

Come gestisce gli insuccessi terapeutici?

Elaborando il lutto depressivo per il dispiacere di non aver aiutato la persona, e magari di averle dato modo di rinchiudersi ancora di più. Cercando di comprendere cosa non ho ascoltato, visto e sentito, consapevole, senza trasformarlo in una scusante, che non tutto dipende dal terapeuta ed esistono anche limiti ai miglioramenti possibili. Comunque, gli insuccessi non si dimenticano. Anche se si impara.

C’è un momento nella sua carriera in cui ha sentito di essere stato più paziente che terapeuta?

Si parla di transfert intendendo quello che il paziente proietta sul terapeuta di sé, o di rapporti con altri che emotivamente non accetta di riconoscere. Ci si riferisce al controtransfert quando ciò che esprime il paziente, oltre a consentire al terapeuta empatia e interpretazioni, rievoca emozioni e conflitti che riguardano la storia del terapeuta stesso. Il riconoscimento del controtransfert e le distinzioni fra vissuti del paziente e quelli del terapeuta permettono al curante di non fare confusione e di avere l’occasione di accedere al proprio inconscio. In questo senso si può dire che, tanto per il paziente quanto per il terapeuta, l’analisi personale non finisce mai, anche se la preparazione e l’allenamento sono diversi.

Qual è il ruolo dell’ironia nella psicoanalisi?

L’ironia, quando non sconfina nel sarcasmo, o in punte sadiche, rappresenta una capacità sana dell’Io di esprimersi senza essere sottomesso, né alla dittatura di un super-Io rigido, né alla dittatura infantile. Si tratta perciò di un’espressione di sanità. Una volta, nelle corti, era affidata quasi istituzionalmente al ruolo del giullare, che oltre a far divertire poteva ironizzare sui sovrani con la garanzia dell’immunità — anche se non sempre rispettata.

In alcuni casi l’ironia è anche uno dei pochi modi per poter alludere a cose troppo dolorose. In psicoanalisi è utile osservare l’uso dell’ironia che riesce a fare il paziente, come indice del funzionamento del suo Io. Ma è utile anche al terapeuta, per non evocare nell’altro la paura del giudizio e animarlo verso associazioni libere, meno controllate dalla dittatura delle difese.

Nel dialogo terapeutico, che ruolo ha la voce?

Fondamentale, direi. Rappresenta la parte più evidente e riconoscibile dell’impatto dei corpo-pensieri che si incontrano in ogni relazione. Nella parte non verbale, in particolare, si susseguono ondate di emozioni in sequenze rapide, come avviene nella musica. Ancor più nella voce che nella parola si esprimono contenuti primitivi e legati all’inconscio. Perciò, è molto importante che il terapeuta aiuti se stesso e il paziente a riconoscere queste dinamiche, altrimenti il dialogo terapeutico rischia di perdere queste informazioni e di lavorare su testi presi alla lettera senza considerare le colonne sonore che raccontano altro. Si rischiano così dialoghi divergenti, separati fra loro in quanto non riconosciuti.

Se le parole dette vengono “negate” dalla voce, come reagisce il suo ascolto?

Le parole possono sì, essere negate. Possono essere temute, e perciò difensivamente contraddette in toto o in parte, derise, manipolate, ma anche desiderate e attese con ansia. Una parte istintuale più o meno sensibile in ognuno percepisce, annusa se le parole sembrano attente, piene, abbastanza veritiere, o se sono invece superficiali, retoriche e fumose. Quando mi accorgo di distonie fra voce e parola, mie e dell’altro, cerco di fare in modo che l’ascolto delle urla, dei cori, delle canzoni, delle operette, dei rap dei corpo-pensieri nei toni della voce non mi tappi le orecchie e la mente. E mi permetta, superando pregiudizi etici ed estetici, di riconoscere nella babele musicale attimi in cui ritrovarsi… ma non è per niente facile.

Come vede oggi la psicoanalisi?

Da quando è stata formulata, la psicoanalisi ha sempre avuto estimatori e detrattori. Trattandosi di una scienza che ha messo in luce la complessità dell’animo umano, non tutti si sentono propensi ad addentrarvisi. Tenendo conto poi della lunga preparazione teorico pratica per chi vuole conoscerla e utilizzarla, il rischio aumenta. Coloro che vogliono evitare la fatica di un confronto interiore, e di un simile impegno anche pratico, tendono a svalutarla e a proporre percorsi alternativi, arrivando persino a negare l’esistenza dell’inconscio. Non mi ritengo un tifoso, uno schierato a prescindere della psicoanalisi, ma per la mia esperienza — su di me e su chi ho conosciuto e cercato di aiutare — al momento è l’approccio che mi convince di più. E questo perché cerca di attivare aree della mente e del corpo che sono ancora poco conosciute o sconosciute, e aiuta a prestare attenzione alla relazione personale e interpersonale con la sinergia di tutti i sensi, in particolare alla voce.

E come vede la psicoanalisi in futuro?

Secondo il mio pensiero, proprio sulla voce come attrice e cantante principale nel teatro dello spazio terapeutico, si possono immaginare i prossimi progressi della psicoanalisi, se riuscirà a includere nella sua visione della complessità l’incredibile concreto scambio dei corpo-pensieri.
Se la psicoanalisi riuscirà a includere, in questi processi, attenzione alle nuove conoscenze e alle complesse dinamiche sociali, rimarrà utile e attuale.
C’è da rammaricarsi che la politica e i potentati pseudoscientifici non consentano alla psicoanalisi di erogare terapie mutuabili, consentendo un accesso a tutti quelli che ne hanno bisogno. Il pretesto che questo non sia possibile per questioni di costi non regge, se si pensa a quanto vengono poi a costare alla società le persone che non vengono curate. E se si pensa che in alcuni paesi, invece, il modo di realizzare una terapia convenzionata si è trovato.

Conclusione

La psicoanalisi non è obsoleta e continua ad avere un’importanza per il futuro. Basta ricordare quanto lo stesso Freud ha scritto, durante la Seconda guerra mondiale, riguardo l’uomo e la sua pulsione alla guerra. Considerazioni tristemente disattese dai conflitti attuali che funestano l’umanità, la quale stenta a comprendere che il primo passo per tendere alla pace e alla soluzione dei conflitti sta nell’assumersi il compito di imparare a disarmare la parola nei conflitti di ogni giorno.

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Foto di Raymond Petrik: https://www.pexels.com/it-it/foto/segnaletica-direzionale-a-collalbo-italia-30232072/modificato da psicosinfonie