Partiamo da un presupposto: già solo l’espressione “essere buoni” non si usa più.
Sa di catechismo, di scuola elementare, di raccomandazione anni cinquanta, fatta ai bambini prima di entrare in casa d’altri.
Essere buoni, oggi, ha più il significato di essere ingenui.
Inadeguati.
In una società in cui si parla solo di utilità, strategia e rendimento, la bontà è una parola inutile.
Parlarne sa un po’ di stucchevole e stantio.
Eppure, ci manca.
Una nostalgia inconfessata
Per quanto “essere buoni” sia un’espressione che non rientra più nel lessico quotidiano, qualcosa dentro di noi si smuove ancora, ogni volta che vediamo un gesto di bontà autentica.
Non gentilezza cortese, non educazione formale.
Ma quella bontà che disarma.
Quel gesto gratuito, che non serve a niente, così raro, non ci lascia indifferenti.
Ci commuove, ci sorprende.
E, per certi versi, ci mette a disagio.
Perché ci ricorda una parte dimenticata di noi.
Una parte di noi che ancora desidera la bontà.
Desidera riceverla. Desidera offrirla.
Ma è una nostalgia inconfessata, quasi vergognosa.
Perché siamo cresciuti imparando a difenderci, non ad accoglierci.
A sospettare, non a fidarci.
A interpretare ogni gesto come potenzialmente interessato, strategico, calcolato.
Allora quando la bontà si manifesta — vera, senza scopo, senza ritorno — non sappiamo dove metterla.
Ci emoziona. Ma ci mette anche in crisi.
Le forme ambigue della bontà
Siamo sinceri: la bontà non è sempre limpida.
Non è sempre pura.
Non è sempre — davvero — buona.
A volte la usiamo per piacere, per essere accettati.
Per sentirci migliori.
A volte essere buoni significa non riuscire a dire di no.
Un modo di essere che adottiamo per controllare, per farci amare, per evitare il conflitto.
Siamo buoni, o facciamo i buoni?
Comprendiamo o sopportiamo?
C’è una bontà che viene dall’amore.
E una bontà che nasce dalla paura.
C’è una bontà che libera.
E una bontà che imprigiona.
C’è una bontà vera.
E una bontà che è una forma più sofisticata di egoismo.
La bontà esiste, ma esistono tante forme ambigue, contraddittorie, paradossali, del tentativo di prendersi cura dell’altro — e di sé.
Proprio per questo, proprio perché ambigua, la bontà è interessante. E più che mai attuale, anche se non se ne parla. E meriterebbe farlo.
Conclusione (per il momento)
Essere buoni non significa dire sempre di sì.
Non significa essere accondiscendenti, per timore o convenienza. Neppure per semplicità.
Non significa rinunciare a se stessi, annullarsi o fingere.
Ma soprattutto, non si è automaticamente buoni solo perché non si è cattivi.
“La bontà inizia quando smettiamo di voler sembrare buoni” diceva Jung.
E possiamo iniziare a essere buoni quando smettiamo di fare i buoni, si potrebbe aggiungere.

