Persona nascosta dietro un vetro rotto con la mano appoggiata, simbolo di vergogna e fragilità umana.

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By Psicosinfonie

La vergogna di mostrarsi fragili

La vergogna non è solo un’emozione di grande disagio, ma una sensazione di nudo smascheramento. Ci fa sentire esposti e soli, fragili.
E possiamo provarla per svariati motivi.

Possiamo vergognarci per aver fatto qualcosa, per aver detto qualcosa, addirittura per aver pensato qualcosa. Ma anche per essere in qualche modo, intellettualmente, socialmente, economicamente, fisicamente, sentimentalmente, emotivamente.

Eppure, proprio per quella sensazione di “nudità” che la vergogna comporta, vergognarsi della propria fragilità eleva la vergogna all’ennesima potenza.
Se già vergognarci ci fa sentire fragili, vergognarci della propria fragilità — amplificando tanto la causa quanto l’effetto — diventa una sensazione che rischia di sopraffarci.
Soprattutto considerando che, quando ci vergogniamo, non proviamo vergogna solo per quella singola occasione, ma anche per tutte le precedenti in cui ci siamo vergognati.

Meglio aggressivi che deboli

In un mondo in guerra come il nostro, in cui persino il linguaggio comune è diventato bellico, armato, militarizzato, non c’è da stupirsi se la prevaricazione è socialmente più accettabile della soccombenza. La forza più dignitosa della debolezza.

L’aggressività viene spesso tollerata, se non addirittura giustificata, considerata come un atto necessario a ristabilire equilibrio o a proteggersi. La fragilità, al contrario, come una colpa, qualcosa di cui vergognarsi.

L’eredità culturale

Fin da piccoli, molti di noi hanno imparato che piangere era segno di debolezza, che chiedere aiuto significava fallire, che mostrarsi vulnerabili equivaleva a rischiare il ridicolo.

Al contrario, l’aggressività è stata spesso normalizzata o addirittura incoraggiata: “fatti valere”, “non farti mettere i piedi in testa”, “difenditi”. In questo modo, fragilità e vergogna hanno finito per intrecciarsi, mentre aggressività e forza hanno guadagnato un’apparenza di legittimità.

Tra fragilità e aggressività

Il confine che separa l’aggressività dalla fragilità, però, non è sempre netto.
Molto spesso, anzi, diventa labile, talmente sottile da far sì che l’una si infiltri nell’altra.

Questo accade quando la vergona di sentirci fragili, minacciati e vulnerabili, scatena in noi una reazione aggressiva. Ma non si tratta di forza o potenza. È uno scudo. Un mascheramento. Il tentativo disperato di coprire la nudità.
Di mascherare la nostra fragilità.
Basti pensare a uno scontro verbale, in cui si alza la voce per non far capire all’altro di avere paura.

Il coraggio della fragilità

Essere fragili non è una colpa. È un modo autentico di esistere. La fragilità ci permette di entrare in contatto con noi stessi e con gli altri in maniera più sincera. Significa riconoscere i propri limiti, ammettere i bisogni, chiedere sostegno.
La fragilità apre la porta all’empatia, alla comprensione, al legame. È una forma di verità che non distrugge, ma costruisce.

Parafrasando e riassumendo quanto scritto da Paul Tillich in Il coraggio di esistere, si potrebbe dire che il coraggio di essere consiste nell’accettazione della propria fragilità e della propria finitudine.

La conclusione del dottor Buffoli

Abbiamo chiesto al dottor Guido Buffoli perché spesso ci vergogniamo più della nostra fragilità che della nostra aggressività.

La sua risposta:

“La vergogna di per sé viene considerata una brutta cosa perché è come apparire nudi di fronte a tutti. E non per quella singola situazione, ma per tutte le volte che ci siamo vergognati di noi stessi. Specie se ci siamo sentiti sporchi, inetti, deboli e vili.
L’aggressività ci illude di essere forti, spesso la giustifichiamo con la legittima difesa o come un agito necessario per ristabilire l’ordine e la pace. Ma l’aggressività, oltre a svelare conflitti repressi, spesso maschera la fragilità.”

“Il sentimento di vergogna si ricollega a una delle più antiche difese psichiche, quella di nascondere la propria debolezza.” Sigmund Freud, “Introduzione alla psicoanalisi” (1917)

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