Schermata con codice sorgente che rappresenta il funzionamento degli algoritmi nei sistemi digitali.

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By Psicosinfonie

Algoritmi: il bisogno umano di prevedere l’imprevedibile

Viviamo in un’epoca dominata dall’incertezza. Guerre, crisi ambientali, instabilità economica e trasformazioni tecnologiche rapide alimentano una sensazione diffusa di smarrimento. In questo scenario, gli algoritmi emergono come simbolo di rassicurazione: strumenti attraverso cui illudersi di poter controllare, spiegare e persino prevedere la complessità del mondo.

Gli algoritmi, originariamente nati in ambito matematico e informatico come sequenze finite di istruzioni per risolvere un problema, oggi sono diventati una vera e propria metafora culturale. Vengono invocati per ordinare il caos, prendere decisioni, filtrare informazioni e guidare comportamenti. Ma perché riponiamo così tanta fiducia in queste formule?

Il bisogno umano di certezze

Il motivo risiede in un bisogno antico: la ricerca di prevedibilità. Come osserva il dottor Guido Buffoli in Umanosfera. L’Amazzonia dei corpo-pensieri. Appunti di viaggio:

«L’essere umano ha un grande bisogno di prevedibilità e forti ansie rispetto all’imprevedibilità, perciò cerca vari metodi per predire il futuro. Si va dagli aruspici, alle carte, alle statistiche e ai modelli matematici ecc.»

La modernità ha sostituito la magia con la scienza, e gli oracoli con i modelli algoritmici. Se in passato ci si affidava alla lettura delle viscere o all’astrologia, oggi si consultano i big data, i software predittivi e l’intelligenza artificiale. Cambiano i mezzi, ma resta uguale l’obiettivo: ridurre il margine dell’incognito.

Algoritmi come bussola nel caos

Gli algoritmi sembrano offrire una promessa potente: eliminare l’errore umano, individuare pattern, svelare verità nascoste nei dati. Per questo oggi li ritroviamo ovunque: nei motori di ricerca, nei social network, nella pubblicità, nella sanità, nella giustizia, perfino nella scelta dei partner su app di incontri.

Ci fidiamo perché desideriamo credere che esista una logica dietro l’apparente disordine della realtà. Come nel film Riders of Justice, citato dal dottor Buffoli:

«Nel film Riders of Justice spicca la convinzione fideistica del protagonista di poter analizzare il presente e prevedere il futuro con gli algoritmi.»

L’episodio è emblematico: il protagonista rielabora una tragedia personale con strumenti matematici, convinto che tutto possa essere spiegato. Ma il risultato è devastante.

«Il protagonista cede il posto a una donna con la figlia in metrò; lei si siede e per un’esplosione muore […] Il protagonista riesamina l’accaduto con gli algoritmi, e deduce essersi trattato di un attentato […]. A quel punto scatta la ricerca dei terroristi […] e ingaggiano con loro una lotta tragicomica. […] Anche se in realtà non c’entravano nulla, tanto che l’ultimo in procinto di morire grida: “Ma che vi avevamo fatto?”»

L’analisi dei dati non solo si rivela fallace, ma conduce a un’azione violenta e sbagliata. Il finale è amaro, ma rivelatore.

«Solo alla fine, il protagonista capisce che le sue fissazioni complottiste erano dovute al bisogno di credere al potere predittivo degli algoritmi, mentre gli avvenimenti erano legati a elementi casuali.»

La differenza tra caso e causa

La riflessione del dottor Buffoli ci mette davanti a una distinzione fondamentale, spesso ignorata: il confine sottile tra casualità e causalità. Come lui stesso scrive:

«A proposito di importanza casuale o causale — cioè di quello che, succedendo per caso, determina successioni di cause ed effetti in una ruota continua — […] ci sono troppe combinazioni variabili legate agli eventi per poter prevedere il futuro e controllare il passato.»

La realtà non segue sempre logiche lineari o prevedibili. Gli algoritmi, per quanto sofisticati, restano strumenti costruiti su dati del passato e non possono prevedere l’imprevisto o l’irrazionale. Spesso ciò che accade è frutto di coincidenze, errori, fattori umani non misurabili. Tuttavia, la nostra mente preferisce le spiegazioni razionali, anche a costo di forzarle.

La fede negli algoritmi

Quella negli algoritmi non è più solo una fiducia tecnica. È diventata, in molti casi, una vera e propria fede laica. Una forma di delega epistemica: preferiamo che sia un sistema matematico a dirci cosa fare, piuttosto che fidarci del nostro giudizio, spesso incerto e fragile.

Ma in questo meccanismo si nasconde una trappola: l’abbandono del pensiero critico. Quando ci affidiamo ciecamente agli algoritmi, rischiamo di deresponsabilizzarci, di delegare la nostra libertà. E soprattutto, perdiamo la capacità di confrontarci con l’imprevedibile, che è invece parte integrante della vita.

Conclusione: algoritmi sì, ma con consapevolezza

Gli algoritmi non sono nemici. Sono strumenti potenti, in grado di semplificare la realtà e aiutarci a prendere decisioni più informate. Ma non dobbiamo dimenticare che hanno dei limiti, e che non potranno mai sostituire completamente la complessità dell’esperienza umana.

Nell’era dell’incertezza, accettare il mistero, l’ambiguità e il caso può essere più liberatorio che cercare una spiegazione matematica per ogni cosa. Leggendo le riflessioni del dottor Buffoli, verrebbe da dire che riconoscere il nostro bisogno di prevedibilità sia il primo passo per non diventarne schiavi.