Ogni società si fonda su un principio imprescindibile: la giustizia. È la promessa che le regole non saranno solo parole, ma strumenti reali per proteggere le persone e ristabilire l’equilibrio quando questo viene violato. Ma cosa accade quando questa promessa viene infranta? Quando il dovere di giustizia non è corrisposto da un adeguato diritto di giustizia?
In questi momenti si apre un conflitto profondo: quello tra giustizia, punizione e vendetta.
In Preconscius, il dottor Guido Buffoli affronta questo tema insidioso chiedendosi quanto sia difficile sconfinare dall’una all’altra, quando il proprio senso di giustizia viene infranto e l’ingiustizia subita addirittura perdonata dalla giustizia istituzionale.
«Vergogna, conflitto, alterità» borbottò, innervosendosi. Ma dove cavolo le trovava e dove andavano a finire le ispirazioni del preconscius quando entravano in campo l’impotenza, la violenza, la minaccia mortale, lo stupro, la strage che portano via un figlio o una compagna, magari per motivi ignobili o futili?»
Giustizia tradita, coscienza in crisi
Questa domanda è il grido di chi vede il proprio concetto di giustizia entrare in crisi. Quando il dolore travolge, la rabbia monta e la legge sembra impotente o disattenta, cosa resta?
Il dottor Buffoli non si limita a descrivere il sentimento: lo seziona. Mette a nudo quella parte dell’animo umano che cerca risposte nel dolore stesso, nella punizione, a volte anche nella vendetta:
«Farsi giustizia da sé, punire, far soffrire l’altro, voler far capire al responsabile, attraverso il dolore, la gravità di tali atti e le disastrose conseguenze che ne derivano.»
Questo desiderio è antico quanto l’uomo. Ma oggi si scontra con un sistema penale spesso percepito come inadeguato. Un sistema che spesso non consola la vittima e non redime il colpevole:
«Il carcere del condannato, pensò, non ripaga quasi per niente – né emotivamente né materialmente — le vittime o i familiari superstiti; peggio, il carcere fa capire ben poco anche ai detenuti, spesso instradandoli a delinquere ancora.»
La voce della rabbia: punizione o vendetta?
In questo quadro desolante, l’individuo si ritrova solo con il proprio senso di giustizia — un senso che non trova riscontro nella realtà e rischia di spegnersi o distorcersi. È qui che il preconscius, secondo il dottor Buffoli, dovrebbe intervenire, suggerendo una direzione, una bussola. Ma cosa accade quando nemmeno quella voce interiore riesce più a farsi sentire?
«Eppure, sono ingenti le tasse che il cittadino paga per mantenere queste strutture, che per la loro inadeguatezza creano comunque sofferenza gratuita e non educativa ai prigionieri. Dopo tanto tempo, dove erano finite le intuizioni di Cesare Beccaria nel Dei delitti e delle pene?»
Beccaria, uno dei fondatori della giustizia moderna, viene evocato come simbolo di un’idea elevata di punizione come strumento di educazione, non di vendetta. Ma quella visione sembra essersi perduta nel tempo e nella prassi.
E allora, che fare? Davanti all’inefficacia della giustizia pubblica, il dottor Buffoli si interroga su ciò che resta all’individuo:
«Allora che si fa, che ti suggerisce il preconscius? Si subisce, si nega la propria rabbia, si rinuncia alla vendetta, si accettano queste angherie come tragici avvenimenti naturali, terremoti, alluvioni, tsunami, rassegnazione, si perdono tolleranza, senso civico, fiducia nella giustizia.»
È una delle domande centrali del nostro tempo. La giustizia personale — quell’equilibrio interiore tra desiderio di riparazione e rispetto per la legge — vacilla facilmente. Rinunciare alla rabbia può sembrare codardia. Assecondarla, però, può trasformarsi in crudeltà. Il dottor Buffoli mette in guardia proprio da questa polarizzazione:
«Il diritto alla legittima difesa può sconfinare facilmente in eccesso di reazione, la passività può portare a un senso di codardia, impotenza, a fissazioni nevrotiche.»
La giustizia, dunque, diventa una questione di equilibrio. Un sentiero stretto tra vendetta e rassegnazione, in cui ognuno deve trovare la propria misura. Ma quanto è difficile percorrerlo quando il dolore brucia e il sistema tace?
Il limite della sopportazione: oltre la giustizia formale
Il passaggio più potente arriva quando il dottor Buffoli elenca, senza mediazioni, le figure che incarnano il male contemporaneo:
«Cosa bisognerebbe fare a chi tortura e ammazza, ai pedofili, ai narcotrafficanti, a coloro che dominano i traffici economici e per il loro solo tornaconto usano le persone come schiavi per produrre consumi e denaro, ai quali non importa se fomentano guerre, inquinano, contaminano, adulterano, provocano malattia e morte?»
Qui la giustizia diventa esigenza etica, sociale, esistenziale. Una richiesta di senso. Il bisogno di sapere che l’orrore non resterà impunito, che l’umanità ha ancora gli strumenti per difendersi, per riconoscere il male e trattarlo come tale.
«Qual è il limite oltre il quale non si può più sopportare? Chissà se i pellerossa lo sapevano quando dicevano: «È un buon giorno per morire». Erano davvero più saggiamente ispirati dal preconscius, o si ha bisogno di idealizzarli? E i samurai? È vero che erano crudeli o disprezzavano la paura?»
Forse, la giustizia non è solo una costruzione sociale o legale. È anche — e soprattutto — un atto di consapevolezza individuale, un ascolto profondo della voce che ci guida anche quando tutto sembra fallire: il preconscius.

