Il bisogno di essere visti non è una novità dei nostri tempi. Fin dall’inizio della civiltà, gli esseri umani hanno cercato lo sguardo degli altri per avere “conferma” della propria esistenza. Tuttavia, mai come oggi questo bisogno ha assunto un carattere quasi vitale, al punto che ci sembra di non esistere se nessuno ci guarda.
Viviamo in una società in cui il riconoscimento sociale non passa più soltanto dal contatto diretto, ma dalla visibilità continua, spesso mediata dalla tecnologia. E così, il nostro valore sembra misurarsi in like, visualizzazioni e follower.
La vetrina digitale della nostra vita
Fotografiamo qualsiasi cosa e la condividiamo online: un piatto al ristorante, un tramonto in spiaggia, l’abito scelto per una serata, il biglietto di un concerto, un nuovo taglio di capelli o una nuova borsa, il guinzaglio del cane, persino un caffè.
E questo, ahimè, non per pura e semplice vanità. O per una forma di esibizionismo esasperato.
Ma per esistere.
Ciò che accade non esiste se non c’è nessuno a guardarlo.
Anche se capita a noi in prima persona.
E non importa se la condivisione è reale o filtrata: ciò che conta è essere visti.
Apparire per esistere
Il bisogno di essere visti non è più un vezzo, ma una condizione necessaria per esistere. Per sentirsi esistere.
Basti pensare a fatto che non mostriamo più solo “il nostro lato migliore”. Ma anche ogni altro singolo e minimo lato e aspetto. Ci mostriamo in pigiama con i capelli arruffati mentre puliamo il pavimento, o siamo in coda alle poste, o al supermercato, mentre piangiamo o siamo malati.
Apparenza ed essenza sono diventati sinonimi. La nostra identità corrisponde alla nostra immagine.
La realtà non ha più alcuna voce in capitolo.
E questo, appunto, non più solo per un gioco estetico.
Ma una necessità esistenziale.
Una grande fragilità
Dietro questo bisogno di essere visti si nasconde ovviamente una grande fragilità. Abbiamo paura che un’esperienza non riconosciuta dagli altri perda di valore, che la nostra immagine svanisca se non è riflessa nello sguardo altrui.
Si tratta di una dinamica psicologica profonda: l’essere umano costruisce la propria identità a partire dagli specchi sociali, reali o virtuali che siano. Guardarsi attraverso gli occhi degli altri diventa allora un modo per confermare la propria esistenza, per sentirsi vivi.
Il problema nasce quando questo bisogno non è equilibrato, ma diventa dipendenza: più siamo visti, più ci sentiamo reali; meno siamo visti, meno ci sentiamo reali.
La nostra sostanza sta nella nostra apparenza.
Quindi l’apparenza è sostanza.
Il parossismo del selfie allo specchio
Tra tutte le forme di esposizione di sé, il selfie allo specchio rappresenta forse il parossismo di questo meccanismo: un’immagine che svela la ricerca di mostrarsi mentre ci si mostra. Non solo vogliamo che gli altri ci vedano, ma vogliamo anche cogliere noi stessi nell’atto di essere visti. È un doppio gioco di sguardi: mentre tu mi vedi, io mi vedo. In quell’istante siamo spettatori e attori della stessa scena, convinti che sia proprio in quella moltiplicazione di immagini a specchio che la nostra presenza acquista forza e realtà.
In quel riflesso, l’identità sembra duplicarsi e rafforzarsi: io esisto perché mi vedo, mentre tu mi vedi.
La conclusione del dottor Buffoli
Abbiamo chiesto al dottor Guido Buffoli perché abbiamo così tanto bisogno di essere visti, riconosciuti, persino “specchiati” dagli altri.
La sua risposta:
“Per la paura che, a forza di non specchiarci e non farci vedere, la nostra immagine sbiadisca.”
“Riconosco di essere come altri mi vede.” Jean-Paul Sartre

