Siamo incompresi o incomprensibili?
All’interno dell’incomprensibilità, c’è una differenza sottile, eppure sostanziale, tra sentirsi incompresi ed essere incomprensibili.
Quando ci sentiamo incompresi, ci sentiamo soli, esclusi, vittime. È come se una parete invisibile ci separasse dagli altri, rendendoci estranei anche in mezzo alle persone più vicine. Non essere capiti sembra una colpa altrui, una mancanza di attenzione, ascolto, empatia, amore.
E se invece dipendesse da noi?
O se fosse diverso?
Se, almeno in parte, l’incomprensione dipendesse dalla nostra capacità — o incapacità — di renderci comprensibili?
Essere compresi è un diritto o una conquista? È qualcosa che dovrebbe accadere naturalmente, o qualcosa che richiede uno sforzo continuo, delicato, imperfetto?
La difficoltà di tradurre il sentire
Essere compresi implica essere in grado di trasmettere non solo parole, ma vibrazioni interiori, paesaggi emotivi, intuizioni sfuggenti. Quanto siamo davvero capaci di farlo? Facciamo attenzione alla vocecon cui parliamo?
Le nostre emozioni sono limpide come crediamo, o si aggrovigliano in nodi che nemmeno noi riusciamo a sciogliere? I pensieri che sentiamo così chiari dentro di noi sono davvero traducibili? O inevitabilmente si corrompono nel passaggio dalla mente alla parola? Alla voce?
Il desiderio di essere compresi
Quanto desideriamo davvero essere compresi?
C’è forse una parte di noi che coltiva il mistero, che si rifugia nel non detto, che teme di essere vista davvero? Forse non siamo sempre sinceri nemmeno nei confronti della nostra voglia di comprensione.
Incomprensibilità e intraducibilità
Ci sono mondi interi che non riusciamo a raccontare. Sfumature che si dissolvono appena tentiamo di descriverle. Dolori che, se espressi, perdono intensità, ma anche autenticità.
A volte non siamo incompresi: siamo intraducibili. Incomunicabili. Persi in una lingua interiore che non ha corrispettivo esterno. O una lingua comune che però la nostra voce rende straniera.
Ciononostante, magari cerchiamo lo stesso. Tentiamo. Balbettiamo pensieri ed emozioni. Ma scegliamo parole traballanti come scale di corda sopra abissi che non vogliono essere attraversati.
La doppia metà del viaggio
Se anche riuscissimo a essere davvero comprensibili, se trovassimo il coraggio di offrirci in modo più trasparente, più accessibile… ci sarebbe sempre qualcuno disposto ad ascoltare davvero?
Essere comprensibili è solo metà del viaggio. L’altra metà è incontrare qualcuno disposto a venirci incontro.
E allora, da entrambe le parti — chi parla e chi ascolta — serve un movimento. Uno verso l’altro.
Incomprensibilità quotidiana
Quanti tentativi di comunicazione — comprensione — falliscono ogni giorno?
Quante volte alziamo la voce, oppure ci chiudiamo in un silenzio muto, perché pensiamo che “tanto non capirebbero”?
E quante volte rinunciamo ad ascoltare, convinti che “tanto non ne vale la pena”?
Quante volte ci sentiamo fare la stessa domanda a cui abbiamo già risposto?
E quante volte la rifacciamo noi più e più volte?
Chi è che non ha ascoltato e chi non ha detto?
E poi, la voce, cosa c’entrava con il discorso?
Ci ascoltiamo, quando parliamo, con che voce parliamo?
Ascoltiamo la voce di chi ci sta parlando, a prescindere da cosa ci sta dicendo?
Le domande possono essere infinite.
Conclusione
L’incomprensibilità è sempre dietro l’angolo, a separarci, tenerci lontani.
Allora, forse, varrebbe la pena mettersi in discussione e chiedersi se stiamo davvero comunicando quello che vogliamo far comprendere, magari anche tenendo conto di chi ci ascolta, delle sue capacità di comprensione.
Allo stesso tempo varrebbe la pena stare a nostra volta in ascolto.
Perché, forse, essere compresi e comprendere fanno contemporaneamente parte della comprensione.
E la voce… la voce ha un ruolo importante.
A volte, fondamentale.

