un uovo che si schiude, simbolo della nascita e dell'ingresso nel mondo.

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By Guido Buffoli

L’esperienza della nascita

Quanto incide sul nostro futuro modo di vivere, il modo in cui viviamo la nascita?

La nascita sembra un evento che subiamo, inermi e passivi. E per certi versi è così. Non possiamo infatti decidere dove venire al mondo, in che modo e con chi. Però a tutte queste variabili che non dipendono da noi, noi reagiamo. Fin dai primi attimi della nostra vita.

Sensazioni e difese che si possono sviluppare, a seconda delle modalità con cui avviene il primo grande evento della nostra vita: la nascita

Con la nascita e l’ingresso nella vita il neonato si trova immerso in un mare di situazioni estranee e imprevedibili che, a seconda dei casi, può essere leggermente mosso, mosso o tempestoso. L’esperienza del travaglio può essere breve e “indolore” o lunga e sofferta, oltre a tutte le vie di mezzo. Ci può essere sintonia fra puerpera e nascituro, o fra i due ci possono essere ritmi diversi e distonici. L’ambiente in cui il neonato si trova per la prima volta separato dalla madre può essere favorevole e calibrato, o improvvisato e carente, può essere protetto e protettivo o casuale ed esposto a stimoli incontrollati. Il parto può avvenire nell’acqua o in una sala affollata da più partorienti, su un taxi, in totale solitudine, in casa, in una toilette per finire in un cassonetto dei rifiuti, e in tanti altri luoghi e modi con variabili assai diverse. Incidenti durante il parto o malattie o malformazioni comportano cure particolari più o meno invasive — flebo, cateteri, intubazioni, operazioni, farmaci… In ogni caso cambiano per il neonato molti parametri fisici: luce, calore, suono, percezioni corporee… basti pensare alle variazioni epidermiche riguardo agli indumenti e alle manipolazioni per i cambi.

Tutte queste variazioni possono stimolare i processi di maturazione sensoriale del neonato ma anche produrre situazioni di blocco e di regressione a volte irreversibili, come ad esempio accade in quelle forme depressive cataclismatiche in cui i neonati divengono catatonici e perdono ogni stimolo alla suzione e alla deglutizione fino a lasciarsi morire.

Le malattie neonatali, in genere, hanno ripercussioni sullo sviluppo in maniera differente a seconda che coincidano con le diverse e più cruciali tappe della crescita. Il neonato soprattutto, ma anche il bambino piccolo non sanno darsi una spiegazione del loro stare male, del dolore, del senso di una caduta o di una ferita. Non possono avere una consapevolezza della realtà oggettiva delle malattie, perciò — sempre proporzionalmente alle tappe temporali con cui, attraverso l’intelligenza sensomotoria, iniziano delle acquisizioni consapevoli sul sé e sul proprio schema corporeo — il bambino reagisce al dolore, alla malattia e alle misure curative con una serie di difese che comunque suscitano in lui tutta una serie di fantasmi o proto-fantasmi.

Secondo le teorie psicoanalitiche, sappiamo che già durante l’allattamento e i primi mesi di vita si possono instaurare istinti sadico-orali contro il seno-madre, quando questo non risolve magicamente i disagi del neonato e non gli si offre in tempi perfetti. E che, se questi istinti sono troppo forti, possono evocare fantasmi distruttivi sul seno, ingenerare una specie di senso di colpa con conseguenti fantasmi punitivi e distruttivi del bambino. Altrettanto può succedere per le malattie o i traumi infantili, quando la madre o chi per lei devono delegare ad altri cure e interventi, magari a loro volta dolorosi. Allora le sofferenze e i fantasmi possono essere così forti da spingere il bambino a forme di regressione come allontanamento dal presente, con possibile blocco dell’evoluzione e dei progressi neuromotori. Oppure, quando l’immagine del proprio schema corporeo è ancora parziale, il neonato può reagire disconnettendo le aggregazioni fatte e, in senso inverso, disgregarsi per non essere bersaglio delle angosce persecutorie.
Altre possibili difese sono la proiezione, l’introiezione, la negazione e il ritorno al nebuloso.
È ovvio che l’uso delle difese non va interpretato solo in modo patologico. L’adattamento richiede un sano apprendimento difensivo che diventa preoccupante e patogeno quando è iper-reattivo e si fissa su fantasmi non aderenti alla realtà.

Personalmente ritengo che i bambini autistici, che solitamente manifestano la loro patologia verso i tre anni, da neonati abbiano largamente fatto uso di difese contro fantasmi di annichilimento e di dissociazione, saturando così quasi ogni forma di energia che risultava perciò molto poco disponibile per ogni altra tappa evolutiva. Questo uso iper-specializzato difensivo crea un certo tipo di apprendimento e di stimolazione alla ipersensibilità a discapito grave della istintualità e pulsionalità diretta. Così i bambini autistici sembrano allo stesso tempo dei seri pensatori e dei neonati bloccati, ipercritici e attenti alle altrui difese ma intrappolati in grovigli difensivi che non consentono loro un uso diretto del pensiero.

Bruno Bettelheim (1976), studioso e terapeuta dell’autismo e delle psicosi infantili, ha avuto il grande merito di saperci rappresentare il dramma della sofferenza così acuta da spingere il bambino, pur di difendersi, a inibire ogni forma di contatto emotivo. Essendo stato internato nei campi di concentramento nazisti, Bettelheim ha vissuto in prima persona le proprie reazioni ed è stato testimone di quelle di molti altri prigionieri di fronte al disorientamento, alla brutalità, alla mancanza totale di previsione conseguenti all’arresto e alla deportazione. Molti prigionieri reagivano alle tecniche di annientamento della personalità previste dalle strategie dei lager con fughe nelle malattie mentali. Questo ha suggerito allo studioso l’ipotesi che l’autismo e le psicosi infantili possano insorgere come forme reattive a esperienze della vita vissute in maniera altamente drammatica e destruente anche in assenza di un oggetto persecutore.

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