Uomo con cappello in mare che guarda un ombrello volare via, simbolo del pacificarsi e del lasciare andare.

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By Psicosinfonie

Pacificarsi nel non pretendere

Pacificarsi è forse una delle parole più difficili da abitare.
Viviamo in un tempo che ci insegna a volere, a spingere, a forzare. La pace interiore, che comunque è sulla bocca di tutti a parole, spesso a sproposito, in realtà è relegata agli anziani. Come le bocce. Come se avesse a che fare con la lentezza, con una pazienza imposta dall’incapacità. Una condizione che ci si può concedere quando non si è più in grado di pretendere che le cose stiano come noi vorremmo, ma solo come è strettamente necessario. Quando si deve lasciare che la vita accada, senza imporle il peso delle nostre aspettative.
Quando ci si rassegna, si rinuncia al controllo e alle vittorie.
E se invece pacificarsi significasse proprio il contrario?
Se presupponesse un livello di lucidità superiore?

Il contrario di pace

Guerra è contrario di pace, lo dicono tutti. Ma pretesa non è da meno.
Pretendere che qualcosa o qualcuno sia come vogliamo noi è, se non un’aggressione vera e propria, una forzatura. E una tensione continua, che ci tiene in uno stato di allerta permanente. Pacificarsi, invece, è distensione. È concedere spazio e tempo. È permettere alle cose di essere senza costringerle a cambiare forma.

Quando smettiamo di pretendere, non rinunciamo alla vita: le restituiamo la sua forma naturale. Non è arrendersi, è concedersi la libertà di esserci. Semplicemente. In un mondo che non ha bisogno di essere sempre interpretato o spiegato. Piegato.

Scrivere, sperare, volare, piangere, riflettere

Ci sono gesti che non cercano risultati ma significato: scrivere, sperare, volare, piangere, riflettere. Gesti umani, vulnerabili, apparentemente inutili. Eppure, è in questi gesti che ci pacifichiamo.

Scrivere per non dimenticare: perché la memoria è ciò che ci tiene interi. Sperare per non sparire: perché la speranza è un modo di restare vivi anche quando nulla lo permette. Volare per non cadere: perché a volte la leggerezza è una forma di resistenza. Piangere per sentire: perché solo ciò che tocca in profondità può trasformarci. Riflettere per ricordare: perché comprendere i ricordi ci restituisce la nostra vera memoria.

In questi gesti non c’è pretesa. Non chiedono niente, non pretendono un ritorno. Sono il modo più umano che abbiamo di riconciliarci con ciò che siamo. Quando scriviamo o piangiamo, non vogliamo cambiare il mondo: vogliamo ricordare che ne facciamo parte.

La nostalgia della pace interiore

Forse la nostalgia che ci abita più spesso è proprio quella della pace. La pace del non pretendere, del non dover dimostrare, del non avere più bisogno di misurarci con tutto. È una nostalgia sottile, che si fa sentire nei momenti di stanchezza, quando ci rendiamo conto che la corsa non porta da nessuna parte.

Pacificarsi è un ritorno. Non a qualcosa che si è perso, ma a qualcosa che si era dimenticato. È ritrovare una quiete antica, che non dipende dagli eventi ma dal modo in cui li attraversiamo. È capire che non si può possedere tutto, e che forse non serve.

Chi si pacifica non si ritira: rimane. Rimane dentro la vita, ma con uno sguardo più largo, capace di vedere oltre la contesa quotidiana. È una forma di lucidità che non toglie intensità, ma la restituisce nella sua essenza più limpida.

La conclusione del dottor Buffoli

Scrivere per non dimenticare.
Sperare per non sparire.
Volare per non cadere.
Piangere per sentire.
Riflettere per ricordare.
Pacificarsi per non pretendere.
Pacificarsi nel non pretendere.

Cit. da Preconscius, Guido Buffoli

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