Nuvoletta bianca su sfondo nero come simbolo del silenzio.

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By Psicosinfonie

Silenzio: parliamone

Parlare del silenzio può suonare come una contraddizione, un gioco di parole, una forzatura.
Ma non parlarne, alla fine, suonerebbe meno contraddittorio solo a parole, soprattutto se si tratta semplicemente di stare zitti.
Perché il silenzio non è solo tacere, anche se i principali vocabolari lo definiscono proprio in questo modo — dal latino silentium, der. di silens -entis, part. pres. di silēre «tacere, non fare rumore».
Ma cos’è, allora, il silenzio?
O meglio, di che silenzio vogliamo parlare?

Facciamo una premessa

Se intendiamo il silenzio come assenza assoluta di suono, i casi in cui possiamo definirlo tale sono davvero rari.
Escluse le condizioni create ad hoc, da scienziati e fisici, non esiste un luogo o una situazione al modo in cui si verifichi.
Anche quando l’orecchio umano non percepisce alcun suono, c’è sempre un dispositivo che ne può rilevare uno o più.

Tutto questo per dire che, così inteso, il silenzio è talmente raro che non dovrebbe neppure riguardarci.
E invece, quello di cui parliamo ci riguarda eccome.
Un silenzio che non è assenza, ma presenza.
Di ascolto e di comunicazione.

Nessuno tace mai

«Ma se non ho detto niente?» ci difendiamo. «Ma se non ti ho neanche risposto?»
Quante volte ci è capitato di stare zitti, e vedere il nostro interlocutore infuriarsi o rattristarsi? O al contrario magari entusiasmarsi, commuoversi?
E questo perché il silenzio comunica, o permette di stare in ascolto.
Due aspetti fondamentali di una relazione, sia con gli altri che con se stessi.

Un minuto di silenzio

Tutti conosciamo il rito del “minuto di silenzio”. Si osserva in memoria di chi non c’è più, o in occasione di tragedie collettive, guerre, eventi che scuotono l’umanità. Ma in quel minuto, mentre restiamo fermi e teniamo la bocca chiusa, dentro di noi le emozioni più profonde prendono voce.

Nel cuore del raccoglimento, grazie al silenzio che creiamo insieme agli altri, le emozioni ci parlano: dolore, rabbia, paura, nostalgia. Le nostre, unite silenziosamente a quelle di tutti gli altri. Un minuto paradossale, in cui il corale silenzio esteriore intona un coro di emozioni interiori.

Il silenzio nella nostra testa

C’è un altro silenzio, di cui si sente spesso parlare. Il silenzio dei pensieri. Un silenzio ancora più impossibile del silenzio come assenza di suono citato all’inizio.
Eppure, il silenzio forse più desiderato.

Quante volte, infatti, desideriamo zittire il rimuginio, quella voce che torna sempre sulle stesse preoccupazioni, che analizza e giudica senza tregua? Quante volte vorremmo spegnere gli impulsi, che ci fanno deragliare dai nostri propositi? O quel “grillo parlante” che sembra guidarci, ma che a volte diventa soffocante, punitivo, castrante, impedendoci di vivere spontaneamente, seguendo l’istinto?

Ci sforziamo in tutti i modi di togliere la parola a quei pensieri, affidandoci a qualsiasi forma e tecnica di meditazione.
Peccato che qualsiasi forma e tecnica di meditazione dica fin da subito che zittire i pensieri è impossibile, e forzarne il silenzio è la cosa peggiore che si possa fare.
Ma si può fare un silenzio diverso. Quello che ci permette di restare in ascolto.
Un ascolto non giudicante, che non investe i pensieri di emozioni, che li lascia fluire senza censure.

Il silenzio nella nostra testa non zittisce i pensieri, li ascolta. Lascia che si dispongano senza costringerli in un ordine. Lascia che gli impulsi trovino uno spazio senza diventare dittatura.
Il silenzio nella nostra testa non è assenza, non è vuoto.
Ma ascolto profondo.
Senza censure.

Il silenzio nelle relazioni

Come abbiamo accennato all’inizio, il silenzio è un aspetto fondamentale della comunicazione nelle relazioni.

Ci sono silenzi preziosi, che uniscono, rafforzano e rendono unico un rapporto.
Stiamo parlando del silenzio della complicità, in cui due persone si capiscono senza bisogno di parole. Il silenzio della comprensione, che accompagna uno sguardo, una mano stretta. Il silenzio della pazienza, che accetta di aspettare, di non commentare, di non affrettare, di non forzare.
Il silenzio dell’intimità, in cui sono i corpi a dialogare, con il loro calore, con la pelle, con il respiro, con il sudore, con gli umori e gli odori.

Ma ci sono anche silenzi che le relazioni le minano, le incrinano, o le colpiscono addirittura a morte, distruggendole. Sono i silenzi pieni di rancore, di non detti feroci, di parole che restano sospese e mai pronunciate, ma che avvelenano l’aria. I silenzi armati, che feriscono. O barricati, che distanziano.
Silenzi privi di ascolto.
Privi di amore.

Il silenzio della natura

C’è poi un silenzio che non dipende da noi, ma che ci avvolge: il silenzio della natura.
Una foresta al mattino, una montagna innevata, il mare calmo al tramonto. Silenzi che non sono mai davvero muti, ma che richiedono il nostro silenzio per essere sentiti. Con i loro suoni sottili, ovattati, quasi impercettibili, ci fanno sentire parte di qualcosa di più grande.
Un silenzio che non è vuoto, ma pienezza. A ricordarci che il mondo vive anche quando noi tacciamo, e che il nostro rumore non è indispensabile all’esistenza.

Il silenzio creativo

Infine, c’è il silenzio che apre nuovi spazi e fa parlare nuove voci: il silenzio della creatività, quello che precede una parola scritta, una nota musicale, un gesto artistico.
Ogni creazione nasce da una pausa, da un momento in cui il rumore si sospende e si lascia emergere qualcosa di inatteso. Da uno spazio.

L’importanza del silenzio

“Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una sola cosa: dal non saper restare in silenzio in una stanza” diceva Pascal. Dove per stanza non intendeva una stanza fisica, un luogo circoscritto da muri, ma metaforico.

Non saper restare in silenzio, rifugiandosi in un continuo movimento rumoroso e assordante, è ciò che ci impedisce di ascoltare noi stessi.
Di conoscere davvero noi stessi.
E comunicare davvero con gli altri.

La conclusione del dottor Buffoli

Abbiamo chiesto al dottor Guido Buffoli come distinguere “i silenzi che fanno bene da quelli che fanno male”.

La sua risposta:

«Quelli buoni sono quelli che permettono di potersi sospendere in un’attenzione fluttuante a guardare le associazioni nelle nuvole, nelle stelle, negli occhi di un altro, nei tuoi pensieri.
Quelli che fanno male sono quando pensi di avere consumato tutte le parole dicibili a te stesso e agli altri, o che gli altri non ne trovino di credibili per te.
Come distinguerli? Tuffati in una grotta sottomarina anecoica e passa dal silenzio al canto delle sirene.»