Bocca che stringe un proiettile tra i denti, metafora visiva del linguaggio armato e della necessità di smilitarizzare la parola.

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By Guido Buffoli

Smilitarizzare la parola… smilitarizzare la voce

Nei giorni di lutto per la morte del papa, mi è capitato di sentire alla radio — nei dibattiti sul problema della pace — dire che, per raccogliere significativamente l’eredità di Francesco, era necessario iniziare a smilitarizzare la parola. Che ognuno di noi si proponesse di farlo. Un invito molto importante, che mi ha colpito perché presuppone domandarsi cosa voglia dire militarizzare la parola.

Militarizzare la parola

Cosa significa, quindi, militarizzare la parola? Significa armarla, entrare nella tattica della difesa, dell’attacco e del contrattacco, degli attentati, della guerriglia. Di quali armamenti si può dotare la parola? Ne ferisce più la lingua della spada… le tue parole mi hanno disarmato… mi hai colpito al cuore… la calunnia è un venticello… le parole di condanna non spariscono neanche dopo quelle di assoluzione… il peso del giudizio… non sempre le bugie hanno le gambe corte.

La parola come arma

A ben cercare si possono trovare molti altri modi di dire che rimandano all’uso della parola come arma. È noto che al momento ci sono più di cinquanta guerre al mondo e non mi risulta che qualcuno abbia pubblicato — o, se sì, senza particolare risalto — il numero totale di vittime. Né una statistica dettagliata su quante di queste siano bambini, donne, uomini, e con che mezzi siano state uccise. Ormai anche le parole “bombe intelligenti” e “danni collaterali” sono diventate armi dell’indifferenza, senza risolvere il confine di dove, come e quanto il fine giustifica i mezzi.

Disarmare la parola

Disarmare la parola significa aprire l’ottica e l’ascolto sul fatto che il problema “guerra e pace” è enormemente più grande di quello terribile dei cinquanta conflitti. Riguarda tutti quotidianamente, e le parole proiettili sono a libero uso con poche restrizioni di legge.

“Si vis pacem, para bellum”

In quanti modi militari si può interpretare il detto latino: “Si vis pacem, para bellum”? Da ottimista, riguardo alle cose più sagge che vengono preservate nella sfera umana, voglio credere che il verbo latino “parare” non sia da interpretare alla lettera come “preparare”. Ma che si riferisca a conoscere gli armamenti, non come dissuasori, ma come conseguenza del loro uso perdendo la pace. Un uso bellico della parola, moltiplicato per la somma degli esseri umani, sviluppa molti più megatoni di qualsiasi bomba nucleare. E anche se non li distrugge al momento, li contamina mentalmente con le sue radiazioni e poi li spinge a farlo fisicamente.

Il dialogo

Il dia-logo, quello spazio in cui la parola passa da uno all’altro, o da uno a molti, può diventare il teatro della guerra relazionale, in cui, apparentemente senza renderlo evidente, si lotta senza quartiere. Quando il dialogo diventa litigio, non ha lo scopo di comunicare, anche rumorosamente, ma di rinnovare l’antica credenza che solo il dolore inferto possa dare vendetta e far capire all’altro. Questi sono solo alcuni tratti perché esistono sfumature diverse, specie se si considera che non è facile stabilire la volontarietà e la consapevolezza della parola armata.

Le armi della parola

Per smilitarizzare la parola, e disarmarla, dobbiamo chiederci quali sono le armi della parola. Ci viene in soccorso ricordare che “la parola” ha termini e significati diversi, più o meno aggressivi, insultanti, giudicanti e assolutisti. Ma la parola non esiste senza la voce, ed è nella sua parte non verbale che ha la stessa struttura della musica.

La voce

“E il Verbo si fece carne”… La voce è corpo. Non solo la si ascolta, ma ci tocca. Nelle note, nei suoi toni possiamo trovare, oltre ad accenti celestiali, ninne nanne consolatorie, canzoni d’amore struggenti, rap di protesta, gospel, inni sacri, anche le trombe di Gerico, le grida di guerra, i grugniti di Sodoma e Gomorra, i laidi spergiuri, le risate sadiche.

Per questo, nell’invito a smilitarizzare la parola è implicito quello a smilitarizzare la voce.
Nella voce si nascondono, senza riuscirci del tutto, i suoni dei conflitti irrisolti. E, ad ascoltare bene, i toni svelano sotto quali tappeti dell’inconscio abbiamo nascosto spazzatura e dimenticanze. Nei toni della voce ci possono essere moti continui di riarmo e conflitti di disarmo, dentro di noi e con chi ci relazioniamo.

Essere consapevoli di questo significa dare un senso all’essere persone. E trovare nella voce stessa quel sesto senso che ci dice se musica e testo delle nostre parole sono sintoniche, o se ci ripropongono con più verità quanto c’è da fare per comprendere la complessità in cui siamo immersi.

Per avere un’idea del potere della voce basta provare a dire a voce alta “ti amo” o “ti odio” o altro, usando due o tre volumi e toni diversi, e ascoltare — non di nascosto — l’effetto che fa. Magari registrandosi e riascoltandosi.

Conclusione

Possiamo consolarci se ci pensiamo come i tanti trattini, come le tante singole note, che danno corpo a ogni genere di partitura che l’uomo è pur stato in grado di farci sentire.
Nelle voci di tutti risuona la storia millenaria di come le voci del cuore e del corpo, di genitori in figli, hanno ripetuto o cercato nuove armonie.

Scambiamoci molto più spesso non solo un segno ma una voce di pace.