La solitudine non è una parola “sola”: la usiamo per dire molte cose diverse — essere soli, stare da soli, sentirsi soli, essere solitari… — e spesso le confondiamo tra loro. Che cosa intendiamo davvero quando parliamo di solitudine? E perché questa stessa parola può indicare tanto un rifugio desiderato quanto una ferita profonda?
Definire la solitudine
La solitudine può essere definita in modi molteplici: come condizione di isolamento fisico, come esperienza soggettiva di disconnessione rispetto agli altri, o come scelta deliberata di ritirarsi per ritrovare se stessi. Il significato linguistico e culturale del termine è ricco e complesso: la parola porta con sé ambivalenze che vanno esplorate per capire perché per alcuni la solitudine è cura e per altri condanna.
Essere soli, sentirsi soli, essere solitari
È fondamentale separare tre esperienze che spesso facciamo rientrare nel concetto di “solitudine”.
Essere soli, sentirsi soli ed essere solitari.
La prima è una condizione oggettiva, in cui mancano altre persone nel contesto. La seconda una percezione soggettiva, in cui si sente la mancanza di vicinanza e contatto anche se intorno ci sono persone. La terza una scelta di vita o una disposizione personale che valorizza il tempo con se stessi.
Non è solo una questione linguistica. La differenza tra queste condizioni cambia la qualità dell’esperienza e le sue conseguenze psicologiche.
Solitudine come rifugio
Per molti, la solitudine è un bisogno creativo. Un “luogo” in cui lasciar fluire pensieri ed emozioni, intuizioni, senza la pressione del giudizio altrui. Essere solitari significa essere capaci di restare con se stessi, con i propri pensieri, nutrire una relazione intima con la propria interiorità. In questo senso la solitudine è nutrimento per lo spirito, una forma di cura personale, un rifugio.
Sentirsi soli: la ferita dell’esclusione
Diverso è sentirsi soli, che spesso può avvenire proprio in compagnia di altre persone. E questo perché manca una connessione emotiva, di riconoscimento, dovuta per lo più a una ferita relazionale pregressa. Questo tipo di solitudine richiede particolare attenzione, per non rischiare di diventare cronica e invalidante.
Perché temiamo e desideriamo la solitudine
Può sembrare un paradosso, ma capita molto spesso che si desideri la solitudine come tregua dal rumore e dall’esposizione, e allo stesso tempo la si tema come perdita di protezione sociale. Forse perché la nostra identità si costruisce in relazione: abbiamo bisogno dello specchio degli altri per riconoscerci, ma subiamo la pressione continua di dover apparire. Ritirarsi può essere un atto di resistenza, ma restare soli può anche evocare antiche paure di abbandono.
Porsi delle domande
Per poter trovare un equilibrio, in questo paradosso, è importante porsi delle domande senza darsi risposte sbrigative. Interrogativi che richiedono ascolto, non giudizio. Che tipo di solitudine cerchiamo? Di quale solitudine abbiamo veramente bisogno? Quale solitudine ci fa male? Siamo soli o ci sentiamo soli? Siamo rimasti soli o ci hanno lasciati soli?
La sfida è imparare a distinguere i diversi volti della solitudine e a nutrire la capacità di scelta: saper stare da soli quando serve, riconoscere e chiedere aiuto quando la solitudine diventa sofferenza, vivere la solitudine come spazio di crescita e non come condanna.
La conclusione del dottor Buffoli
A proposito del paradosso del bisogno di solitudine, abbiamo chiesto al dottor Guido Buffoli come si spiega il fatto che desideriamo la solitudine e, allo stesso tempo, ne abbiamo paura.
La sua risposta:
“Si spiega con la differenza tra essere soli ed essere solitari. Tra la capacità di stare da soli e il timore di poter essere puniti, persecutoriamente, con la scomparsa di tutti gli altri.”
“La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo.” — Seneca, Lettere a Lucilio

